Poesie: “Incastri”

Viale,
roseti interi.
Mangostano fiorito.
Si ci perdon
odi o ami,
col loro.

(Via le rose tinte,
rimango,
stano fiori tossici.
Perdono Dio
amico loro).

La seconda poesia è celata nella prima

Gabriele Iannotti

Aforismi: “Le radici della mente”

Il macchinista

L’intelligenza e la cultura viaggiano sullo stesso treno, ma non nello stesso vagone.

 

L’Aventino delle coscienze

La censura è la morte del pensiero.

 

Grandi imprese

Non importa cosa farai nella vita, verrai sempre ricordato per la cosa più stupida. Vespasiano fece costruire il Colosseo, ma viene associato agli orinatoi.

 

Arte e vita

L’arte del vivere è celata nella vita stessa. Essendo arte, è soggettiva”

 

Non pensando

Colui che è vacuo di pensieri, potrà adempiere ad un vita felice.

 

Pensando

Il ragionamento è passione.
La passiona è vita.
Se non ragioni, se non pensi, non vivi realmente.

 

Equazione

Amore

AZIONE

Odio

 

Gesti

Un gesto di carità dura uno sbattere di ciglia, ma nella mente di chi lo vive, è un momento eterno.

 

Vittima e carnefice

Ai carnefici piace prendere le sembianze della proprie vittime.

 

Esistenza

Ognuno basa la propria esistenza sulla forma d’amore più vicina.

 

Vita e Morte

Le religioni salvano l’uomo dal pensiero della morte,
l’ateismo salva l’uomo dall’idea della vita.

 

Gabriele Iannotti

Recensione libro “La rivoluzione italiana” di Patrick Keyes O’Clery

«Soldati, poiché il nostro Santo Padre Pio IX si è degnato di affidarmi la difesa dei suoi conculcati e minacciati diritti, non ho esitato un istante solo a impugnare la spada. Al suono di quella voce venerabile che ha già fatto conoscere dalla sommità del Vaticano i pericoli che circondano il Patrimonio di S. Pietro, la Cattolicità si è scossa e questo movimento si propaga ai confini del mondo. Il cristianesimo non è solo la religione del mondo civilizzato, ma è la sorgente e l’essenza stessa della civiltà. Da quando il Papato è divenuto il centro della Cristianità, tutte le nazioni cristiane mostrano, anche in questi giorni, una coscienza sicura di quelle verità sulle quali è basata la nostra Fede. Come l’islamismo una volta minacciò l’Europa, così è ora per lo spirito della Rivoluzione e, oggi come allora, la causa del Papato è la causa della civiltà e della libertà nel mondo. Soldati! Abbiate fiducia: siate sicuri che Dio sosterrà il nostro coraggio e lo innalzerà all’altezza di quella causa, la cui difesa ha ora concesso alle nostre armi».

Queste parole del generale delle truppe pontificie La Moricière, pronunciate nell’aprile del 1860, rendono bene l’idea del clima nel quale si realizzò l’Unità d’Italia.
Da un lato c’era il papa Pio IX, il quale aveva proposto ai legittimi sovrani della nostra penisola una “bozza di Trattato per la Lega Italiana”, che creasse un nuovo Stato federale, rispettoso di tutte le tradizioni e dei diritti preesistenti alla sua costituzione.
Dall’altro c’era il Regno di Sardegna di Vittorio Emanuele II e del suo primo ministro Cavour, i quali si posero a capo del progetto ideologico liberale, ispirato dalla Rivoluzione francese e dalla massoneria internazionale: quello di creare uno Stato italiano fortemente centralizzato, che facesse tabula rasa del Papato e della tradizione cattolica del popolo italiano.
“La Rivoluzione delle Barricate” e “La Formazione del Regno d’Italia”, due fondamentali studi dell’avvocato irlandese P. K. O’Clery – testimone oculare degli eventi che portarono alla famosa “Breccia di Porta Pia” del 20 settembre 1870 – documentano in modo impressionante le “eroiche” imprese di tutti coloro i cui nomi fanno bella mostra di sé sulle strade delle nostre città: i già citati Vittorio Emanuele II e Cavour, Garibaldi, Mazzini, il generale Cadorna e così via.
Ne esce un quadro desolante, fatto di corruzione, tradimenti, furti generalizzati a danno di Stati in precedenza prosperi e pacifici, confische dei beni della Chiesa ed azzeramento di tutte le opere di carità costruite nel corso dei secoli, aumento a dismisura del debito pubblico nazionale per sostenere la politica guerrafondaia del nuovo Stato unitario, imposizione della leva militare per tutti i giovani, aumento a dismisura delle tasse per mantenere l’esercito, impegnato a sedare la rivolta del Sud Italia, sudditanza nei confronti dei governi liberali e massoni europei, in particolare del governo inglese, ferocemente anticattolico…
In tale scenario di morte e desolazione, brilla una luce fulgida: quella di Pio IX e dei suoi giovani soldati, gli Zuavi, accorsi da tutto il mondo cristiano a sacrificare la vita per la difesa del Papa e del suo Regno. L’Autore, che fece parte di quel Corpo scelto, vi dedica pagine commosse e commoventi, come quando descrive l’evacuazione delle truppe pontificie, in seguito alla conquista di Roma da parte dell’esercito italiano: «… il Papa apparve al balcone, e, levando le mani al cielo, pregò: “Che Iddio benedica i miei figli fedeli!”. L’entusiasmo di quel momento supremo fu indescrivibile. Con un frenetico Eljen! (Evviva!; ndr.) uno zuavo ungherese sfoderò la spada e subito, con un simultaneo struscìo di acciaio, migliaia di spade sguainate brillarono al sole. (…) Al pensiero di lasciare il Santo Padre, lacrime di amarissimo rimpianto solcarono le guance di quegli uomini, che avevano sfidato la morte in tante disperate battaglie. Le trombe diedero l’ordine di avanzare e, nel muoversi, la testa della colonna lanciò un ultimo triste grido di “Viva Pio IX!”, che, riecheggiato fila dopo fila, fu ripetuto da tutto l’esercito e dalla folla radunatasi per assistere alla partenza».
“La Rivoluzione Italiana”, pubblicazione che raccoglie i due citati studi di O’Clery, può essere un’occasione d’incontro con un periodo importantissimo quanto misconosciuto della storia del nostro Paese, periodo nel quale si formarono le cause della nostra purtroppo debole identità nazionale. È un’occasione per capire meglio il nostro presente.

Daniele Meneghin

Poesie: “Autoritratto”

Con pennello e tavolozza
su una tela
un po’ sgualcita
prende forma con coraggio,
la mia vita.

Rosso e qualche sfumatura
ecco il fuoco ed il calore
uscir fuori con ardore
la passione del mio cuore.

Con il verde e il marroncino,
la mia mente corre forte
nei risvegli di bambino
nella valle dei ricordi.

Blu e celeste che bellezza!
Le serate già trascorse
coll’eterna giovinezza.

Ma è col bianco un pò
ingrigito che
prende forma il mio dipinto.

Il passato ed il presente,
una miscela di colori,
una grande tenerezza
del domani ed altro ancora!

Ludovica Milano

Terrorismo in Italia e nel mondo: cronistoria di una tragedia

In questo reportage si vuole trattare una questione, ad oggi, di rilievo internazionale che ha interessato per molti anni anche il nostro Paese: il Terrorismo. Con terrorismo, o strategia del terrore, si intende quell’insieme di atti ed azioni compiuti da parte di qualche soggetto per destabilizzare il senso di sicurezza delle vittime e di chi sta intorno ad esse. L’esempio più eclatante per l’Italia è stato rappresentato dalle Brigate Rosse, così chiamate perché di area comunista, che combattevano a loro dire contro il “sistema”, termine col quale intendevano inglobare istituzioni di ogni tipo o personaggi di rilievo che, per la loro idea, erano un pericolo. Si sono avute, a causa di questo tipo di terrorismo, numerose stragi ed omicidi. Il punto cardine su cui si deve focalizzare l’attenzione è stato sicuramente il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro.

Era il 16 marzo 1978 quando l’Onorevole Aldo Moro, allora Presidente della Democrazia Cristiana venne prelevato da alcuni uomini che, per non essere braccati e lasciare testimoni, uccisero tutti gli agenti di scorta. Aldo Moro in quel periodo stava lavorando alla creazione di un Governo in collaborazione col Partito Comunista. Mai si trovò il covo dove è stato nascosto Moro, ma lo stesso continuava a mandare appelli attraverso i giornali, chiedendo allo Stato di trattare con le BR il suo rilascio. Ma lo Stato non volle cedere. Rifiutò ogni trattativa, ragionando sull’opportunità di evitare di scendere a patti con tali fanatici. Purtroppo, il 9 maggio, una telefonata ad un amico di Moro gela il sangue a lui ed ai parenti ed affiliati alla DC. Nella telefonata a nome BR si dice che il cadavere del politico era rinchiuso nel bagagliaio di una Renault 4 rossa in Via Caetani a Roma. Si verificò tale notizia, tale telefonata e… il riscontro ci fu. Il cadavere dello statista venne ritrovato e le immagini del corpo fecero il giro di tutte le emittenti televisive, gettando chi le vide nello sconforto e nel terrore.

Si capì che le BR e la loro violenza non avevano limite. Ma chi erano le BR? Erano un gruppo di studenti ed operai a cui un personaggio tristemente noto agli onori della cronaca, Renato Curcio, aveva dato il nome di Brigate Rosse. Ai tempi Curcio era un giovane studente di Sociologia ed era aiutato, nella sua idea di creazione di questo gruppo armato, da un certo Enrico Franceschini, ex militante del Partito Comunista. Insieme, con la loro creazione, diedero vita ad un nutrito gruppo di persone, molto variopinto, che racchiudeva molti soggetti della classe operaia del tempo e personaggi del cosiddetto gruppo di Lotta Continua, gruppo extra-parlamentare di estrema sinistra, che si unirono alle BR per combattere quello che loro definivano SIM (Stato Imperialista delle Multinazionali). Cominciarono così gli “anni di piombo”. Periodo buio della nostra storia, in cui nessuno poteva dirsi tranquillo e, solo camminando per strada, si rischiava di essere uccisi o feriti da questo gruppo armato. Vennero, in questo periodo, ad unirsi due tipi di terrorismo. Da una parte le BR, gruppo di estrema sinistra, che combatteva lo Stato e dall’altra le logge di estrema destra, come la loggia massonica denominata P2, autrice di varie stragi, tra cui quelle tristemente note di Piazza Fontana (12 dicembre 1969) e della Stazione Centrale di Bologna (2 agosto 1980). Si dice che molti BR, tra cui lo stesso Curcio, si nascosero in Piemonte durante gli anni di latitanza, per sfuggire alla cattura da parte delle forze dell’ordine. Alcuni personaggi di spicco delle Brigate Rosse si pentirono delle loro azioni, iniziando a collaborare con le istituzioni dello Stato per terminare il periodo degli anni di piombo. Il primo grande pentito della storia BR è stato Patrizio Peci che, con le dichiarazioni rese al famosissimo Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, permise di scovare numerosi latitanti BR e assicurarli alla giustizia. Purtroppo, anche in questo caso, la risposta Br non si fece attendere. 10 Giugno 1981, il fratello di Patrizio Peci, Roberto, venne rapito dalle Brigate Rosse e “condannato a morte” per tradimento.

Infatti, dopo 54 giorni di prigionia, Roberto Peci venne assassinato e tutti gli atti preliminari alla sua uccisione, compreso l’ultimo, terribile atto, venne filmato suscitando incredulità e paura in quanti abbiano visionato quelle immagini. Si tratta del più grave atto di vendetta interna nella storia del terrorismo italiano. Con tale azione le BR volevano dimostrare la loro forza e crudeltà nei confronti di chiunque si volesse schierare contro di loro. Un po’ di storia brigatista del Peci. Era il 1962, il luogo era San Benedetto del Tronto. Patrizio Peci era allora un giovane di 17 anni che, in seguito all’affondamento di un peschereccio ed il rifiuto dell’armatore di autorizzare il recupero delle salme in mare, decise di manifestare insieme a molti altri personaggi contro questa decisione. In seguito Peci si fece “affascinare” dalla lotta brigatista (è noto che gli oratori e propagandisti BR erano molto in gamba e trovavano numerosi adepti con la loro arte oratoria) e fondo i Proletari Armati in Lotta. Il gruppo non era, solitamente, dedito agli omicidi. Si limitava, almeno inizialmente, a bruciare auto e pestare gli avversari politici di destra. Ma ben presto la storia cambia. Dopo l’arresto di Curcio, Franceschini diventa il capo delle BR e Peci si fece ammaliare da lui e dai suoi uomini, abbandonando il gruppo e unendosi alle BR. Macchiandosi così di numerosi assalti ed omicidi. Nel 1978 Peci viene arrestato e, di fronte al Gen. Dalla Chiesa, decide di porre fine alla sua lotta, collaborando alle inchieste e creando i presupposti per la cattura di numerosi ricercati BR. Fu il primo pentito della storia delle brigate. A lui succedettero numerosi altri esponenti. Ma le BR non si fermano. Nel 1981, dopo 54 giorni di prigionia, venne ucciso il fratello di Patrizio Peci, Roberto, a dire delle brigate rosse, colpevole di aver tradito insieme al fratello, i nuclei armati e per questo da eliminare. Fortunatamente, forse anche grazie al programma di protezione dei pentiti, Patrizio Peci riesce a scampare alla vendetta dei brigatisti e, nel suo libro “Io, l’infame” racconta le vicissitudini della sua vita all’interno dei gruppi armati, fino al suo pentimento ed alla collaborazione con lo Stato alla cattura di quanti più potesse. Una fonte da me intervistata, che ha chiesto di rimanere anonima, mi ha precisato che il Peci, durante il periodo del suo pentimento, visse anche in alcune zone del Monferrato e dell’Alessandrino. Forse anche questo tipo di spostamenti lo salvò dalla vendetta brigatista.

Fortunatamente gli anni di piombo, a seguito di numerosi arresti e indagini, finirono e la gente comune, compresa quella che si interessava di giustizia e politica, ricominciò ad uscire di casa sicura di non dover più temere un giovane di 17 anni che, in seguito all’affondamento di un peschereccio ed il rifiuto dell’armatore di autorizzare il recupero delle salme in mare, decise di manifestare insieme a molti altri personaggi contro questa decisione. In seguito Peci si fece “affascinare” dalla lotta brigatista (è noto che gli oratori e propagandisti BR erano molto in gamba e trovavano numerosi adepti con la loro arte oratoria) e fondo i Proletari Armati in Lotta. Il gruppo non era, solitamente, dedito agli omicidi. Si limitava, almeno inizialmente, a bruciare auto e pestare gli avversari politici di destra. Ma ben presto la storia cambia. Dopo l’arresto di Curcio, Franceschini diventa il capo delle BR e Peci si fece ammaliare da lui e dai suoi uomini, abbandonando il gruppo e unendosi alle BR. Macchiandosi così di numerosi assalti ed omicidi. Nel 1978 Peci viene arrestato e, di fronte al Gen. Dalla Chiesa, decide di porre fine alla sua lotta, collaborando alle inchieste e creando i presupposti per la cattura di numerosi ricercati BR. Fu il primo pentito della storia delle brigate.

A lui succedettero numerosi altri esponenti. Ma le BR non si fermano. Nel 1981, dopo 54 giorni di prigionia, venne ucciso il fratello di Patrizio Peci, Roberto, a dire delle brigate rosse, colpevole di aver tradito insieme al fratello, i nuclei armati e per questo da eliminare. Fortunatamente, forse anche grazie al programma di protezione dei pentiti, Patrizio Peci riesce a scampare alla vendetta dei brigatisti e, nel suo libro “Io, l’infame” racconta le vicissitudini della sua vita all’interno dei gruppi armati, fino al suo pentimento ed alla collaborazione con lo Stato alla cattura di quanti più potesse. Una fonte da me intervistata, che ha chiesto di rimanere anonima, mi ha precisato che il Peci, durante il periodo del suo pentimento, visse anche in alcune zone del Monferrato e dell’Alessandrino. Forse anche questo tipo di spostamenti lo salvò dalla vendetta brigatista. Fortunatamente gli anni di piombo, a seguito di numerosi arresti e indagini, finirono e la gente comune, compresa quella che si interessava di giustizia e politica, ricominciò ad uscire di casa sicura di non dover più temere.  Dalle BR al terrorismo mafioso. Il terrorismo BR non fu il solo esempio di terrorismo italiano, seguirono specialmente negli anni ’90 le stragi mafiose, che coinvolsero numerosi poliziotti e magistrati, ma anche gente comune che nulla aveva a che vedere con i loro “obiettivi”. Due stragi tra tutte sono rimaste impresse nella memoria di chi le ha vissute, anche solo televisivamente. La prima è la c.d. Strage di Capaci. Era il 23 Maggio del 1992 quando il giudice Giovanni Falcone arriva all’aeroporto di Punta Raisi, direzione Palermo, con la moglie. Erano le 16.45. In quel momento Falcone, sua moglie e le auto della scorta, si mettono in viaggio per raggiungere Palermo. Nessuno poteva immaginare cosa sarebbe successo un’ora dopo, alle 17,58. Una mano assassina arma di 500 kg di tritolo con comando a distanza l’autostrada all’altezza dello svincolo di Capaci. Un botto terrificante che disintegrò l’autostrada A29 e le auto coinvolte. La prima auto di scorta venne trovata a una decina di metri dal punto di deflagrazione.

Incredulità e sgomento. Il giudice Giovanni Falcone, la sua adorata moglie, gli agenti di scorta. Tutti deceduti. Nessuno poteva immaginare. Le immagini riportate dalle TV sono agghiaccianti, colonne di fumo, distruzione, morte. Brandelli di carne umana e metallo in fiamme ovunque. I pezzi dell’asfalto scagliati a decine di metri di distanza. Il giudice Falcone viene portato in condizioni disperate al Civile di Palermo ma niente, neanche lui ce la fa. Alle 19,05 di quello stesso, maledetto giorno, ne viene dichiarato il decesso, lasciando tutti sgomenti. In quella tragica data ci furono in totale 5 morti e 23 feriti. Non passò molto tempo per assistere, purtroppo, ad un altro vile attentato di mafia. Era il 19 luglio dello stesso, maledettissimo, anno. Il 1992. Il giudice Paolo Borsellino si reca a far visita alla madre in Via D’Amelio, una via che da sempre era stata definita pericolosa dalle forze dell’ordine ma per la quale non era stato fatto nulla. Era stato chiesto, come numerose testimonianze potrebbero confermare, più volte di non lasciar parcheggiare le auto nel piazzale antistante la palazzina dove la mamma di Borsellino viveva. Troppo pericoloso. Ma nessun appello era stato recepito, nessuno. Ed è così che, quel tremendo giorno, il 19 luglio 1992, un’auto imbottita di esplosivo viene fatta esplodere all’arrivo del giudice Paolo Borsellino, collega di Falcone ed uno dei più grandi giudici che l’Italia ricordi.

Un’esplosione devastante. Il giudice e 5 agenti della scorta furono colpiti dal devastante botto e non ebbero scampo. La maledetta 127 esplosa era proprio lì, nel pericoloso piazzale che da tempo suscitava preoccupazioni da parte degli agenti. Un solo superstite in quel gigantesco dramma. Un agente di scorta che testimoniò tutta la crudeltà e la crudezza delle immagini che vide coi suoi occhi: “Il giudice e i miei colleghi erano già scesi dalle auto, io ero rimasto alla guida, stavo facendo manovra, stavo parcheggiando l’auto che era alla testa del corteo. Non ho sentito alcun rumore, niente di sospetto, assolutamente nulla. Improvvisamente è stato l’inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L’onda d’urto mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c’erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto” Una testimonianza inquietante, soprattutto alla luce dei continui allarmi da parte degli agenti sulla pericolosità di Via D’Amelio.

Numerose indagini (ed illazioni) ne seguirono. Si arrivò ad arresti, perquisizioni e, molto tempo dopo (le ultime nel 2013), a condanne per questo vile attentato. Indagini che rendono giustizia al grande giudice, ma che non lo riportano indietro. Specialmente perchè la sua morte sarebbe stata, al contrario di quella di Falcone, evitabile.

Daniel Incandela

Poesie: “2014”

L’uomo che vedo allo specchio
Tace
Perché il pudore dell’età
Uccide le parole del cuore
Prima che arrivino sulla bocca.
Costretto
Vive  in  un  mondo senza angeli
dove semplice è amare
troppo difficile essere amati.

Toni Capello

Presentazione ufficiale “Un missionario in canoa”

L’Associazione Culturale “La Chiave dell’Arte” organizza per domenica 8 febbraio alle ore 17,30 presso l’Auditorium Santa Chiara di Casale Monferrato, la presentazione del libro “Un missionario in canoa“.

Interverrano all’evento il missionario salesiano don Gervasio Fornara, l’autrice del libro Veronica Iannotti, lo studioso di storia salesiana Julien Coggiola, il docente e teologo Alessandro Marra, il portavoce dell’Associazione Culturale “La Chiave dell’Arte” Natalino Amisano. Letture a cura di Gigi Rossi. Modera Matteo Camagna.

Il libro, la cui introduzione è curata dal vescovo Alceste Catella, mira a sostenere le missioni fondate da don Gervasio, parte dei proventi infatti verranno inviati in Colombia.

Don Gervasio Fornara originario di Borgomanero in provincia di Novara, è nato nel 1939 a Saint Genis Pouilly in Francia. Partito nel 1961 per la Colombia come missionario, tornerà in Italia nel 2002. Trasferito nella Parrocchia del Sacro Cuore di Gesù a Casale Monferrato, dove vive e opera, verrà nominato parroco nel gennaio del 2003.