Blue Whale: il gioco della morte.

Negli ultimi tempi si è sentito parlare di Blue Whale, il macabro e mortale gioco che ha purtroppo preso piede anche nel nostro Paese.

Ma cos’è esattamente il Blue Whale e qual è la ragione per la quale è nato?

Il Blue Whale, letteralmente Balena Blu, è un “gioco” in cui vi sono solo due partecipanti: un “curatore” e la vittima.

Le modalità sono assurde quanto violente, perché la vittima, solitamente un ragazzino dagli 8 ai 17 anni, è chiamato a compiere per 50 giorni atti contro la propria persona, che vanno dalle incisioni sulla pelle – specialmente la tipica balena – all’alzarsi alle 4,20 del mattino per visionare video e film raffiguranti suicidi o violenza, o ancora per ascoltare musica psicologicamente penetrante fino al suicidio.

Infatti il gioco Blue Whale è chiamato il gioco della morte, perché porta, in soli 50 giorni, la vittima a togliersi la vita per volere del curatore.

Tale triste e macabra induzione al suicidio, sotto forma di roleplay game è nata in Russia, sembra nel 2006, quando è stato scoperto grazie all’arresto di un uomo, che si vantò persino di aver indotto al suicidio decine di bambini, ritenuti da lui “scarti della società” e quindi meritevoli di una triste fine.

Purtroppo negli ultimi mesi questo fenomeno ha preso piede pure da noi, in Italia, dove sono state decine le segnalazioni da parte di familiari e amici di giovanissimi che hanno notato qualcosa di strano in loro.

Ma cosa spinge un ragazzino a farsi “svuotare” da questo gioco fino alla morte?

Potremmo partire dal fatto che, ultimamente, la vita di ognuno di noi è sempre più frenetica ed impegnata, tanto che, anche chi ha figli piccoli, si deve avvalere di babysitter, nonni o altre persone che diano aiuto per badare a loro. Questo fa sì che i nostri ragazzi siano sempre meno seguiti e che forse si sentano sempre più abbandonati dalle famig\lie.

Questo sintomo potrebbe spingere allora a sentirsi “amati” da una persona estranea che, mediante metodi psicologici subdoli, entra a far parte della vita di questi poveri ragazzi, fino a diventarne i padroni.

Infatti, sembra che la maggior parte dei curatori di Blue Whale sia costituita da laureati in psicologia infantile o psichiatri, quindi molto avvantaggiati nel capire come prendere “possesso” di una persona.

In Italia fortunatamente il fenomeno è (ancora) marginale, tanto che le segnalazioni di autolesionismo e di “blue Whale” sono poche decine.

Ma è un allarme ugualmente, perché ci fa capire quanto questo gioco sia potente e quanto sia “interessante” per i giovani, poco seguiti ormai dalle famiglie e sempre più presi da tecnologia e quant’altro.

In pochi mesi, da quando un noto programma televisivo ne ha parlato, alla Polizia postale e delle telecomunicazioni sono arrivate varie segnalazioni di persone che hanno notato segni strani su braccia e gambe di giovanissimi. Sinonimo di questo brutale gioco.

L’aspetto terribile di questo rpg è che il ragazzino deve fare vita normale e non far trasparire nulla né parlare con nessuno di ciò, fino al 50° giorno, quello del suicidio. Per questo è difficile notare chi ci “gioca”.

La sola cosa che potremmo fare tutti noi per evitare questa fine è seguire di più i nostri ragazzi, i nostri piccoli amici, in modo che non possano avvicinarsi a questo che può essere chiamato “il mortal gioco”.

Prendiamoci tutti una pausa, corriamo meno e dedichiamoci di più alla famiglia e…facciamo sparire la balena (solo quella del gioco) dalle vite di tutti i più piccoli. La vita è bella, facciamoglielo capire.

Daniel Incandela

L’omino arrabbiato

Era una fredda sera invernale, il mese di gennaio di quell’anno fu uno dei più freddi che io ricordi.

In quella gelida sera conobbi una persona, un ragazzo gentile nei modi e molto educato. Una di quelle persone che subito capisci essere buone. Ma guardandolo bene notai qualcosa in lui di strano. I suoi occhi erano cupi, quasi uno sguardo arcigno lo caratterizzava. In quello sguardo traspariva una voglia di gridare, di urlare al mondo tutto ciò che il corpo non riusciva più a tenere dentro. Riconobbi subito quella sensazione, quegli occhi trasparivano rabbia. Una rabbia repressa, quasi nascosta, ma che un buon osservatore riusciva sicuramente a scovare.

Fu così che mi misi a parlare con questo ragazzotto e scoprii tante cose di lui. Una vita impegnatissima, piena di begli avvenimenti e di tante soddisfazioni.

Ma….Allora perché questa rabbia? Volli approfondire, capire cosa stava succedendo in questo nuovo amico. Cercai di domandare, ma lui si chiuse a riccio. Per forza, non mi conosceva ed ovviamente non si sentiva capace e né si fidava a parlare di sé. Lo capisco, perché aprirsi al mondo ed alle altre persone, soprattutto su fatti di carattere personale, non è facile. Anzi, è complicatissimo. Ed è pure rischioso. Pensate a quante persone vogliono sapere i fatti nostri solo per spulciare nelle nostre vite e godere delle nostre sconfitte E’ per questo che capisco questo ragazzo, comprendo la sua poca voglia di parlare di se stesso.

Ma volevo capire, volevo fortemente aiutarlo a sfogare e parlando capii che cominciava a fidarsi ed arricchire le chiacchiere di particolari. Sempre più ampi e sempre più personali.

Ad un tratto il giovinotto mi raccontò che intraprese un tipo di studi che credeva piacergli, era ancora giovanissimo ed incerto, ma convinto di ciò che andava a fare.

Ben presto capì che non era il suo percorso, non era ciò per cui voleva farsi il mazzo e che poco gliene caleva del fatto che quello fosse il suo futuro. Mi disse che a fatica terminò quel percorso ma cambiò poi strada, intraprendendone una totalmente diversa. Fu lì che capii che si stava aprendo, stava parlando della sua vita.

Ad un certo momento gli feci una domanda diretta: «Ehi amico, i tuoi occhi non mi dicono cose buone, tu hai della rabbia repressa in te. Come mai tanta rabbia?»

Lui rimase sorpreso, quasi scioccato. Mi guardò e disse: «Guarda mio caro, quando credi di conoscere bene le persone ed in realtà scopri che esse son diverse da come le avevi idealizzate…..beh, fa malissimo. Ed è qui che esplode la rabbia»

Rimasi in silenzio, ma poi gli dissi questo: «Amico mio, ti capisco. Anche io a volte non so come mai la gente cambia, o se cambiamo noi. Però vedi, la rabbia, se fine a se stessa non è positiva. Bisogna trasformarla in sensazioni positive, in stimoli buoni per andare avanti e creare. Creare nuove opportunità. È un po’ come la dinamo delle biciclette: tu pedali, fai fatica e magari tiri accidenti. Ma alla fine accendi la lampadina. Così va usata la rabbia, per creare nuove forze, per conquistare nuove vittorie»

Vedete, quel ragazzo, con cui alla fine mi scambiai i numeri di telefono, dopo qualche giorno mi ricontattò. Lo fece per ringraziarmi, perché aveva pensato a ciò che gli avevo consigliato. Mi disse che da quel momento in cui gli diedi quella “dritta” imparò che la rabbia è uno stimolo e non la sensazione in sé e che usandola bene crea energie infinite e tutte volte alla positività ed alla produttività.

Non rividi mai più quel ragazzo, ma ebbi la certezza che, da allora, imparò a far tesoro delle mie parole, come io feci tesoro della sua conoscenza e posso solamente dire che la sua rabbia arricchì anche me.

Daniel Incandela

La storia di Babbo Natale

C’era una volta Babbo Natale. Chi non ne ha mai sentito parlare, chi non ha mai creduto in lui, nell’età fanciullesca. Ebbene, oggi vorrei raccontarvi la sua storia. Una storia fatta di magia e realtà, fatta di epoche lontane, ma vicine. Semplicemente, la storia di un vecchio di buon cuore, che porta in giro per il mondo regali al fine di esaudire i desideri dei più piccini. Babbo Natale, che in molte Nazioni è chiamato con altri nomi, tra cui Santa Claus, in realtà vive in Finlandia, nell’estremo nord dell’Europa. Il suo villaggio si chiama Rovaniemi ed è situato in mezzo alle nevi, in un posto bellissimo.

Lui ha molti aiutanti, tutti fidatissimi. Si avvale dei folletti. Personaggi tra il serio e la fantasia che gli danno una mano a creare ed impacchettare tutti i regali da portare, la notte di Natale, ai bambini che gli hanno scritto la “letterina” e che, chi prima o chi poi, vedranno i propri desideri avverarsi.

Si dice che lui sia molto vecchio e saggio. Ne dà prova la sua folta chioma e la sua barba, entrambe bianche. Non fatevi ingannare dall’età: lui ha centinaia di anni sulle spalle, tanta esperienza e tanta fatica. Ma non molla mai, è instancabile, ed ogni anno la notte di Natale fa il suo viaggio per il mondo a bordo di una slitta magica. Non una slitta qualsiasi, una slitta volante guidata da renne. Delle renne speciali di cui il mondo intero conosce i loro nomi: Rudolph, Dixen, Vixen, Dazzle, Cupid, Donner, Prancer e Dancer. Nomi complicati, di cui forse uno è più noto: la mitica renna Rudolph! La più conosciuta ed amata dai piccini. Per così dire è la “rappresentante morale” delle renne di Babbo Natale.

Si dice che siano anche renne parlanti, che consigliano Babbo Natale nella rotta più veloce ed efficace, per rendere ancora più rapido il lavoro del bravo “nonnetto”. Il vecchio saggio, poi, è inconfondibile. Si riconosce per la sua veste. Una giacca rossa come i pantaloni, con le bordature bianche. Difficile sbagliarsi, ma attenzione, non vi fate fregare. Di Babbo Natale ne esiste solo uno. E si trova a Rovaniemi, in un posto incantato. Bimbi, però, non vi preoccupate perché lui, il vecchietto, è bravissimo e molto preparato. Si dice in giro che conosca ogni lingua del mondo, esia pronto ad abbandonarsi in bontà, dolcezza e gentilezza con ogni bambino (o adulto) del mondo.

Ah… e chi vi dice che il Babbo non esiste, dice una menzogna. E’ una bugia. Lui esiste, e tutti i desideri richiesti li esaudisce. Buon Natale amici di Babbo Natale, che sia un felice Natale per voi tutti e… nel caso incontriate Babbo Natale, fategli un salutino da parte mia!

Daniel Incandela

Terrorismo in Italia e nel mondo: cronistoria di una tragedia

In questo reportage si vuole trattare una questione, ad oggi, di rilievo internazionale che ha interessato per molti anni anche il nostro Paese: il Terrorismo. Con terrorismo, o strategia del terrore, si intende quell’insieme di atti ed azioni compiuti da parte di qualche soggetto per destabilizzare il senso di sicurezza delle vittime e di chi sta intorno ad esse. L’esempio più eclatante per l’Italia è stato rappresentato dalle Brigate Rosse, così chiamate perché di area comunista, che combattevano a loro dire contro il “sistema”, termine col quale intendevano inglobare istituzioni di ogni tipo o personaggi di rilievo che, per la loro idea, erano un pericolo. Si sono avute, a causa di questo tipo di terrorismo, numerose stragi ed omicidi. Il punto cardine su cui si deve focalizzare l’attenzione è stato sicuramente il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro.

Era il 16 marzo 1978 quando l’Onorevole Aldo Moro, allora Presidente della Democrazia Cristiana venne prelevato da alcuni uomini che, per non essere braccati e lasciare testimoni, uccisero tutti gli agenti di scorta. Aldo Moro in quel periodo stava lavorando alla creazione di un Governo in collaborazione col Partito Comunista. Mai si trovò il covo dove è stato nascosto Moro, ma lo stesso continuava a mandare appelli attraverso i giornali, chiedendo allo Stato di trattare con le BR il suo rilascio. Ma lo Stato non volle cedere. Rifiutò ogni trattativa, ragionando sull’opportunità di evitare di scendere a patti con tali fanatici. Purtroppo, il 9 maggio, una telefonata ad un amico di Moro gela il sangue a lui ed ai parenti ed affiliati alla DC. Nella telefonata a nome BR si dice che il cadavere del politico era rinchiuso nel bagagliaio di una Renault 4 rossa in Via Caetani a Roma. Si verificò tale notizia, tale telefonata e… il riscontro ci fu. Il cadavere dello statista venne ritrovato e le immagini del corpo fecero il giro di tutte le emittenti televisive, gettando chi le vide nello sconforto e nel terrore.

Si capì che le BR e la loro violenza non avevano limite. Ma chi erano le BR? Erano un gruppo di studenti ed operai a cui un personaggio tristemente noto agli onori della cronaca, Renato Curcio, aveva dato il nome di Brigate Rosse. Ai tempi Curcio era un giovane studente di Sociologia ed era aiutato, nella sua idea di creazione di questo gruppo armato, da un certo Enrico Franceschini, ex militante del Partito Comunista. Insieme, con la loro creazione, diedero vita ad un nutrito gruppo di persone, molto variopinto, che racchiudeva molti soggetti della classe operaia del tempo e personaggi del cosiddetto gruppo di Lotta Continua, gruppo extra-parlamentare di estrema sinistra, che si unirono alle BR per combattere quello che loro definivano SIM (Stato Imperialista delle Multinazionali). Cominciarono così gli “anni di piombo”. Periodo buio della nostra storia, in cui nessuno poteva dirsi tranquillo e, solo camminando per strada, si rischiava di essere uccisi o feriti da questo gruppo armato. Vennero, in questo periodo, ad unirsi due tipi di terrorismo. Da una parte le BR, gruppo di estrema sinistra, che combatteva lo Stato e dall’altra le logge di estrema destra, come la loggia massonica denominata P2, autrice di varie stragi, tra cui quelle tristemente note di Piazza Fontana (12 dicembre 1969) e della Stazione Centrale di Bologna (2 agosto 1980). Si dice che molti BR, tra cui lo stesso Curcio, si nascosero in Piemonte durante gli anni di latitanza, per sfuggire alla cattura da parte delle forze dell’ordine. Alcuni personaggi di spicco delle Brigate Rosse si pentirono delle loro azioni, iniziando a collaborare con le istituzioni dello Stato per terminare il periodo degli anni di piombo. Il primo grande pentito della storia BR è stato Patrizio Peci che, con le dichiarazioni rese al famosissimo Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, permise di scovare numerosi latitanti BR e assicurarli alla giustizia. Purtroppo, anche in questo caso, la risposta Br non si fece attendere. 10 Giugno 1981, il fratello di Patrizio Peci, Roberto, venne rapito dalle Brigate Rosse e “condannato a morte” per tradimento.

Infatti, dopo 54 giorni di prigionia, Roberto Peci venne assassinato e tutti gli atti preliminari alla sua uccisione, compreso l’ultimo, terribile atto, venne filmato suscitando incredulità e paura in quanti abbiano visionato quelle immagini. Si tratta del più grave atto di vendetta interna nella storia del terrorismo italiano. Con tale azione le BR volevano dimostrare la loro forza e crudeltà nei confronti di chiunque si volesse schierare contro di loro. Un po’ di storia brigatista del Peci. Era il 1962, il luogo era San Benedetto del Tronto. Patrizio Peci era allora un giovane di 17 anni che, in seguito all’affondamento di un peschereccio ed il rifiuto dell’armatore di autorizzare il recupero delle salme in mare, decise di manifestare insieme a molti altri personaggi contro questa decisione. In seguito Peci si fece “affascinare” dalla lotta brigatista (è noto che gli oratori e propagandisti BR erano molto in gamba e trovavano numerosi adepti con la loro arte oratoria) e fondo i Proletari Armati in Lotta. Il gruppo non era, solitamente, dedito agli omicidi. Si limitava, almeno inizialmente, a bruciare auto e pestare gli avversari politici di destra. Ma ben presto la storia cambia. Dopo l’arresto di Curcio, Franceschini diventa il capo delle BR e Peci si fece ammaliare da lui e dai suoi uomini, abbandonando il gruppo e unendosi alle BR. Macchiandosi così di numerosi assalti ed omicidi. Nel 1978 Peci viene arrestato e, di fronte al Gen. Dalla Chiesa, decide di porre fine alla sua lotta, collaborando alle inchieste e creando i presupposti per la cattura di numerosi ricercati BR. Fu il primo pentito della storia delle brigate. A lui succedettero numerosi altri esponenti. Ma le BR non si fermano. Nel 1981, dopo 54 giorni di prigionia, venne ucciso il fratello di Patrizio Peci, Roberto, a dire delle brigate rosse, colpevole di aver tradito insieme al fratello, i nuclei armati e per questo da eliminare. Fortunatamente, forse anche grazie al programma di protezione dei pentiti, Patrizio Peci riesce a scampare alla vendetta dei brigatisti e, nel suo libro “Io, l’infame” racconta le vicissitudini della sua vita all’interno dei gruppi armati, fino al suo pentimento ed alla collaborazione con lo Stato alla cattura di quanti più potesse. Una fonte da me intervistata, che ha chiesto di rimanere anonima, mi ha precisato che il Peci, durante il periodo del suo pentimento, visse anche in alcune zone del Monferrato e dell’Alessandrino. Forse anche questo tipo di spostamenti lo salvò dalla vendetta brigatista.

Fortunatamente gli anni di piombo, a seguito di numerosi arresti e indagini, finirono e la gente comune, compresa quella che si interessava di giustizia e politica, ricominciò ad uscire di casa sicura di non dover più temere un giovane di 17 anni che, in seguito all’affondamento di un peschereccio ed il rifiuto dell’armatore di autorizzare il recupero delle salme in mare, decise di manifestare insieme a molti altri personaggi contro questa decisione. In seguito Peci si fece “affascinare” dalla lotta brigatista (è noto che gli oratori e propagandisti BR erano molto in gamba e trovavano numerosi adepti con la loro arte oratoria) e fondo i Proletari Armati in Lotta. Il gruppo non era, solitamente, dedito agli omicidi. Si limitava, almeno inizialmente, a bruciare auto e pestare gli avversari politici di destra. Ma ben presto la storia cambia. Dopo l’arresto di Curcio, Franceschini diventa il capo delle BR e Peci si fece ammaliare da lui e dai suoi uomini, abbandonando il gruppo e unendosi alle BR. Macchiandosi così di numerosi assalti ed omicidi. Nel 1978 Peci viene arrestato e, di fronte al Gen. Dalla Chiesa, decide di porre fine alla sua lotta, collaborando alle inchieste e creando i presupposti per la cattura di numerosi ricercati BR. Fu il primo pentito della storia delle brigate.

A lui succedettero numerosi altri esponenti. Ma le BR non si fermano. Nel 1981, dopo 54 giorni di prigionia, venne ucciso il fratello di Patrizio Peci, Roberto, a dire delle brigate rosse, colpevole di aver tradito insieme al fratello, i nuclei armati e per questo da eliminare. Fortunatamente, forse anche grazie al programma di protezione dei pentiti, Patrizio Peci riesce a scampare alla vendetta dei brigatisti e, nel suo libro “Io, l’infame” racconta le vicissitudini della sua vita all’interno dei gruppi armati, fino al suo pentimento ed alla collaborazione con lo Stato alla cattura di quanti più potesse. Una fonte da me intervistata, che ha chiesto di rimanere anonima, mi ha precisato che il Peci, durante il periodo del suo pentimento, visse anche in alcune zone del Monferrato e dell’Alessandrino. Forse anche questo tipo di spostamenti lo salvò dalla vendetta brigatista. Fortunatamente gli anni di piombo, a seguito di numerosi arresti e indagini, finirono e la gente comune, compresa quella che si interessava di giustizia e politica, ricominciò ad uscire di casa sicura di non dover più temere.  Dalle BR al terrorismo mafioso. Il terrorismo BR non fu il solo esempio di terrorismo italiano, seguirono specialmente negli anni ’90 le stragi mafiose, che coinvolsero numerosi poliziotti e magistrati, ma anche gente comune che nulla aveva a che vedere con i loro “obiettivi”. Due stragi tra tutte sono rimaste impresse nella memoria di chi le ha vissute, anche solo televisivamente. La prima è la c.d. Strage di Capaci. Era il 23 Maggio del 1992 quando il giudice Giovanni Falcone arriva all’aeroporto di Punta Raisi, direzione Palermo, con la moglie. Erano le 16.45. In quel momento Falcone, sua moglie e le auto della scorta, si mettono in viaggio per raggiungere Palermo. Nessuno poteva immaginare cosa sarebbe successo un’ora dopo, alle 17,58. Una mano assassina arma di 500 kg di tritolo con comando a distanza l’autostrada all’altezza dello svincolo di Capaci. Un botto terrificante che disintegrò l’autostrada A29 e le auto coinvolte. La prima auto di scorta venne trovata a una decina di metri dal punto di deflagrazione.

Incredulità e sgomento. Il giudice Giovanni Falcone, la sua adorata moglie, gli agenti di scorta. Tutti deceduti. Nessuno poteva immaginare. Le immagini riportate dalle TV sono agghiaccianti, colonne di fumo, distruzione, morte. Brandelli di carne umana e metallo in fiamme ovunque. I pezzi dell’asfalto scagliati a decine di metri di distanza. Il giudice Falcone viene portato in condizioni disperate al Civile di Palermo ma niente, neanche lui ce la fa. Alle 19,05 di quello stesso, maledetto giorno, ne viene dichiarato il decesso, lasciando tutti sgomenti. In quella tragica data ci furono in totale 5 morti e 23 feriti. Non passò molto tempo per assistere, purtroppo, ad un altro vile attentato di mafia. Era il 19 luglio dello stesso, maledettissimo, anno. Il 1992. Il giudice Paolo Borsellino si reca a far visita alla madre in Via D’Amelio, una via che da sempre era stata definita pericolosa dalle forze dell’ordine ma per la quale non era stato fatto nulla. Era stato chiesto, come numerose testimonianze potrebbero confermare, più volte di non lasciar parcheggiare le auto nel piazzale antistante la palazzina dove la mamma di Borsellino viveva. Troppo pericoloso. Ma nessun appello era stato recepito, nessuno. Ed è così che, quel tremendo giorno, il 19 luglio 1992, un’auto imbottita di esplosivo viene fatta esplodere all’arrivo del giudice Paolo Borsellino, collega di Falcone ed uno dei più grandi giudici che l’Italia ricordi.

Un’esplosione devastante. Il giudice e 5 agenti della scorta furono colpiti dal devastante botto e non ebbero scampo. La maledetta 127 esplosa era proprio lì, nel pericoloso piazzale che da tempo suscitava preoccupazioni da parte degli agenti. Un solo superstite in quel gigantesco dramma. Un agente di scorta che testimoniò tutta la crudeltà e la crudezza delle immagini che vide coi suoi occhi: “Il giudice e i miei colleghi erano già scesi dalle auto, io ero rimasto alla guida, stavo facendo manovra, stavo parcheggiando l’auto che era alla testa del corteo. Non ho sentito alcun rumore, niente di sospetto, assolutamente nulla. Improvvisamente è stato l’inferno. Ho visto una grossa fiammata, ho sentito sobbalzare la blindata. L’onda d’urto mi ha sbalzato dal sedile. Non so come ho fatto a scendere dalla macchina. Attorno a me c’erano brandelli di carne umana sparsi dappertutto” Una testimonianza inquietante, soprattutto alla luce dei continui allarmi da parte degli agenti sulla pericolosità di Via D’Amelio.

Numerose indagini (ed illazioni) ne seguirono. Si arrivò ad arresti, perquisizioni e, molto tempo dopo (le ultime nel 2013), a condanne per questo vile attentato. Indagini che rendono giustizia al grande giudice, ma che non lo riportano indietro. Specialmente perchè la sua morte sarebbe stata, al contrario di quella di Falcone, evitabile.

Daniel Incandela

Lettera a Babbo Natale

Caro Babbo Natale,
ti scrivo perché, come ogni anno, sta arrivando il tuo giorno. Il giorno in cui tu doni un po’ di gioia nei cuori delle persone, il giorno in cui, ai più piccoli, porti giocattoli e balocchi. Io non sono più un bambino e i doni “materiali” non li desidero. Desidero, invece, questo: viviamo in un periodo di profonda crisi, malcontenti e la gente è disperata. Non si trova lavoro, si arriva a stento a fine mese. Sentiamo di anziani costretti a rubare nei supermarket, perché hanno fame, perché con 300 € di pensione al mese non riesce a comprare da mangiare. Esistono persone che, non volendo arrivare a tanto, non toccano cibo per interi giorni oppure si limitano ad una tazza di latte.

Sono innumerevoli le famiglie in cui uno solo dei componenti lavora, spesso un lavoro umile e sottopagato. Orari impossibili, straordinari, tutto per portare a casa un misero stipendio, per poter sfamare i figli e il coniuge disoccupato. Caro Babbo Natale, io son fortunato. Vivo con i miei genitori, hanno un lavoro entrambi e mi danno molto, tutto ciò di cui ho bisogno. Non lavoro ancora purtroppo, ma sono ottimista nel pensare che un lavoro lo troverò e mi permetterà anche di restituire tutti i sacrifici che i miei genitori hanno fatto per me. Per questo non ti chiedo nulla, solo di portare gioia e buone notizie alle persone che lo meritano, alle persone che più ne hanno bisogno, quelle che, pur con niente si danno da fare. Ti chiedo di poter dare la possibilità a tutti coloro che cercano un lavoro, di trovarlo, ti chiedo di intercedere affinché ogni impresa possa sopravvivere e non fallire. Ti chiedo di portare un pasto caldo ogni giorno a chi non ha le possibilità di averlo. Ti chiedo questo, niente per me.

Confido in te.

Grazie,

Daniel Incandela

Pensiero violento

Primo dicembre 2014. Ultimo, ma sicuramente non ultimo, caso estremo di violenza sfociato in omicidio. Un piccolo di 8 anni ucciso da un soggetto non definito, ancora ignoto. Una piccola vita innocente strappata a questo mondo sempre più crudele e distruttivo nei confronti di se stesso. Solo una delle tante, troppe, ultime vicende. Perché ormai, non si contano più i casi come questo. E non solo in Italia. Viviamo in un mondo sempre più indecente. Ogni giorno sentiamo di gente che viene maltrattata, fisicamente e psicologicamente. Giusto di questi giorni è la notizia che varie persone di colore son state uccise negli U.S.A., i “mentalmente apertissimi” Stati Uniti, dove un’apparente civiltà, spesso inarrivabile ai nostri occhi, nasconde crimini tra i più efferati. In India, invece, esistono ancora le caste, come quella degli “intoccabili” che non vengono considerati dalla società, anzi. Vengono visti come “pattume”, contro ogni convenzione dei diritti umani.

In Italia femminicidi, omofobia, infanticidi e stupri. Per non parlare del terrorismo, islamico e non, che crea solo morti o disagi. Le guerre inter religiose, le guerre “sante” (che di santo non hanno assolutamente nulla), le visioni distorte della religione stessa. Ogni cosa in questo mondo crea disagio. Eppure? Sembra tutto così normale. Si parla di un omicidio come si parla di calcio. Nessuno che si indigna. Non ci facciamo neppure più caso, siamo vaccinati. Ci si muove per cose frivole, ma per i diritti essenziali poco e nulla. Ad esempio, davanti ad una persona a terra ferita, in molti casi si pensa “In fondo non mi riguarda”. E’ successo in una bellissima città italiana, Napoli, che un uomo venisse colpito da diversi colpi di pistola e chiedesse aiuto ai passanti poiché ferito in modo serio (nei tg si vedeva un video in cui aveva una ferita evidente al fianco, da cui perdeva molto sangue) e nessuno si è fermato ad aiutarlo. Paura? No, semplicemente disinteresse. Stessa cosa succede all’estero. Si chiede aiuto e nessuno o quasi, fa nulla. Però…. ci si picchia per il calcio, si crea scompiglio se una squadra ha vinto o perso, ci si indigna per un arbitraggio un po’ “sui generis”, o se qualcuno ci passa davanti alla cassa del supermercato. Ma per le cose importanti sii guarda a tutto con sufficienza o disinteresse. E non solo in Italia, ma in tutto il mondo. Nessuno muove un dito perché hanno ucciso un bambino a Ragusa, nessuno ha mosso un dito mentre uno stalker ha sfregiato con l’acido una donna che voleva fosse sua. Come nessuno ha mosso un dito quando ha visto soffocare da un agente un uomo mentre veniva ammanettato negli U.S.A. Personalmente mi è capitato anche di vedere una persona a terra svenuta e nessuno che ha prestato soccorso. Mi son fermato solo io insieme ad un’altra persona. Ma è giusto questo? Se tutti ci indignassimo un po’ di più per i nostri diritti vitali, sicuramente vivremmo in un mondo migliore. Ma finché ci mobilitiamo solo se il Milan, la Juve o l’Inter o chicchessia vince o perde….Beh, significa che vogliamo e meritiamo un mondo così, un mondo senza diritti né interessi veri.

Daniel Incandela

Siamo tutti un po’ social

Che belli i social network. Quelli come Facebook, Twitter, Instagram… quelli che danno la possibilità di colloquiare con persone in tutto il mondo, senza muoversi da casa. Sì, sono una bella invenzione. Ma li utilizziamo nel modo corretto? Chi vi scrive è convinto che essi abbiano un’enorme utilità, soprattutto se si ha un’attività commerciale o se più banalmente si vuole condividere un pensiero o qualcosa su di sé e sulla propria vita. Ma proprio come accade nel mondo reale, anche il virtuale presenta numerosi ostacoli e insidie. Mi è capitato più di una volta di “postare”, come si dice in gergo, un commento ad una notizia di cronaca oppure un pensiero personale… non l’avessi mai fatto: si sono scatenati veri e propri putiferi.

Insulti, commenti su commenti, repliche infinite e mi chiedo: a che pro? Porta ad una crescita? E’ in qualche modo formativo? Vi è un vero scambio di opinioni o anche il litigio, il rispondersi per le rime, è ormai diventato una moda, la normalità? Il problema di fondo, credo sia un qualcosa di molto banale, semplicemente la poca voglia (e capacità) di prendere alla leggera questi strumenti di comunicazione. Li (e ci) prendiamo troppo sul serio, confondendo realtà e fantasia, pronti a pensare di conoscere una persona dalle sue foto, dai suoi post, da ciò che scrive, senza averla neppure mai vista dal vivo. Leggo continuamente, avendo un profilo su Facebook anche io, commenti contro parenti, conoscenti, partner, commenti pieni di odio contro il proprio capo, commenti contro qualche amico o amica che ha fatto, magari involontariamente, qualche sgarbo. Un mondo virtuale, nato come passatempo, si è trasformato fino ad assomigliare a un ring! Sempre più frequenti sono gli sfoghi sul proprio posto di lavoro. Questioni senza dubbio molto private. Spezzo una lancia nei confronti dei datori di lavoro: non è bello, come per chiunque, vedersi deriso e sbeffeggiato dal proprio dipendente, pubblicamente e su internet. Senza contare il rovescio della medaglia: diverse sentenze della Corte di Cassazione hanno precisato che un post denigratorio su social network nei confronti del proprio datore di lavoro può essere causa di licenziamento, come avvenuto già in diverse occasioni.

Senza contare i problemi familiari: scenate, gelosia, critiche, litigi. Persone che a causa di una foto su social network si son ritrovate con le valigie pronte fuori di casa! Foto di figli abbandonati, moglie picchiate, mariti traditi. È tutto pubblico ormai.

Eppure gli aspetti positivi non mancherebbero, prendo un esempio personale: adoro la lingua spagnola e la sua “melodicità”. Ho sempre sognato di poter, un giorno, colloquiare con persone madrelingua e imparare da loro qualche termine, un convenevole, un saluto o qualche simpatica frase da usare.

Ho iniziato con la musica. Testi scaricati e tradotti. Poi Facebook. Essendo nella Croce Rossa Italiana e facendo parte di numerosi gruppi sui social ad essa dedicati, ho iniziato a conversare con persone straniere. Mi son concentrato sulle zone sudamericane: Cile, Argentina, Colombia. Nazioni dove lo spagnolo è di casa. Anche contatti cubani. Tutto per la mia voglia di imparare la loro lingua. Ricordo le difficoltà iniziali, ogni due secondi ero con il vocabolario online aperto perché non conoscevo dei termini. Ora son due anni che scrivo (e parlo) in spagnolo e posso dire grazie ai social se posso conversare in modo abbastanza buono con tutti coloro che mi scrivono o parlano in spagnolo. Questo per dire che, in qualsiasi ambito, si può imparare. Si può trarre insegnamento persino da un video games. E così dal social network.

Usiamo la testa quando usiamo la tastiera… litighiamo già abbastanza nel mondo reale, perché farlo anche nel mondo virtuale?

Daniel Incandela

 

Red Cross is life

Otto anni. Sono passati ormai otto anni da quel lontanissimo 2006 quando presi la decisione di iniziare il volontariato presso la Croce Rossa Italiana. Era un freddissimo giorno di dicembre quando andai alla prima lezione del corso, che poi mi portò a diventare Operatore di centralino della C.R.I., e lo ricordo ancora benissimo. Il nostro Istruttore, persona molto capace e chiara nelle spiegazioni, iniziò a darci le prime nozioni storiche sulla CRI e sulle sue origini. Mai avrei pensato di potermi sentire tanto coinvolto da quelle spiegazioni e da tutto ciò che scoprii successivamente. Da quel giorno non ho mai smesso di essere un volontario, ad oggi ho avuto molte soddisfazioni, delusioni, e sentimenti contrastanti, ma nel corso del tempo mi sono accorto che la CRI non è un’associazione di volontariato: la CRI è una vera e propria famiglia, dove ognuno ha un compito, e nel momento in cui uno dei componenti “viene toccato”, gli altri lo supportano nelle decisioni e in tutto ciò di cui potrebbe necessitare.

Io sono un centralinista, un semplice operatore, che risponde alle chiamate delle persone o del 118, utilizzo la radio per comunicare con i mezzi in movimento, compilo i moduli del centralino, che inizialmente spaventano un po’ tutti, me compreso. Ricordo che la prima volta che mi son trovato da solo, poiché i miei colleghi erano in servizio, avevo il cuore in gola. Un collega mi disse: “Se hai bisogno, chiamaci via radio o ‘via cavo’”, ossia per telefono. “Ok, grazie” gli risposi io. Dopo pochi secondi mi trovai solo.
Nessuno in centralino ad aiutarmi in caso di difficoltà, nessuno in sede da poter contattare “di persona”. Fu una sensazione strana, difficile da descrivere…paura? Angoscia? No, semplicemente tensione. Ma tutto, ogni minima cosa, andò bene quel giorno. Risposi in modo corretto alle telefonate, annotai prenotazioni di servizio in modo “molto buono” (a detta di colleghi con maggiore anzianità). Insomma, come se l’avessi sempre fatto. Da lì ho capii che da quel centralino, da quel luogo, non non sarei più andato via… A volte, dopo tanti anni, ancora mi sento dire “Ma non ti pagano,cosa ci vai a fare….” ed io rispondo sempre con la stessa frase “Ognuno fa le proprie scelte di vita. Io ho scelto di stamparmi una Croce Rossa sul cuore, oltre che sulla divisa che porto.” In quel momento, cala il silenzio assoluto e non sanno più cosa rispondere… Da qualche tempo, la mia esperienza da volontario si è ampliata con una delega che mi porta a scrivere articoli di giornale e a pubblicare eventi facebook per il mio Comitato Locale. Sono sempre stato appassionato di scrittura, forse per la mia comunicatività, forse perchè mi viene “semplice” farlo. Non so. Purtroppo questo tipo di delega mi ha attirato anche alcune critiche esterne, ma non importa. Faccio quello che mi piace, quello che mi gratifica. Le parole volano col vento, quindi anche le critiche. Tornando al mio piccolo centralino, devo dire che non sempre è un ruolo semplice: ci si trova di fronte a situazioni talvolta strane, spesso persino bizzarre, ma essendo riservate, non posso raccontarle. La sola cosa che posso dire è che quando non si deve essere concentrati e seri, vige un clima sereno all’interno del gruppo. Ho persone dal cuore d’oro con me e in loro compagnia qualsiasi malumore o pensiero negativo sparisce. Sì, a volte, per ragioni di servizio, ci può essere una discussione, anche aspra., ma in pochi minuti tutto svanisce, e si torna a essere concentrati sul nostro unico obiettivo: aiutare il prossimo. La CRI è un’ Associazione che ha dei principi cardine da seguire. Principi che vanno al di là delle idee sociali, politiche, (calcistiche!) o razziali e sono sette: Umanità. Imparzialità. Neutralità. Indipendenza. Universalità. Unità. Volontarietà. Questi sette principi per noi volontari, possono essere paragonati un po’ ai sette nani: uno lo si scorda sempre… ma tutti vengono rispettati! La Croce Rossa Italiana è come una famiglia e tutti siamo uguali. Io sento di farne parte e da questa famiglia non uscirò mai.

Daniel Incandela